Anche quest’anno il lungo ponte delle festività pasquali, aperto con il ricordo della Resurrezione di Cristo,ci ha regalato bei momenti di aggregazione con familiari e amici, dove a fare da punto di ritrovo è stata come sempre la tavola con i piatti della cucina regionale italiana.
Ma da dove arrivano gli ingredienti necessari a realizzarli, e perché in Italia ogni festività del calendario è un momento buono per brindare alla salute con un buon vino?
Un viaggio nell’antica Roma alla scoperta delle radici della nostra alimentazione
Roma, 21 Aprile 753 a.C. Secondo i Romani Romolo aveva tracciato in questa data i confini dell’Urbe ed essi scelsero di commemorare la fondazione della città proprio nello stesso giorno in cui celebravano i Parilia, una festa dedicata al mondo della pastorizia.
Dunque se ci fossimo trovati nella Roma arcaica prima della diffusione del Cristianesimo da parte di Costantino, non avremmo festeggiato la Pasqua, che quest’anno è caduta proprio il 21 Aprile, ma le nostre radici di “popolo di pastori”, come ci chiama Varrone, noto erudito di età repubblicana, che scrive:
“Chi nega che il popolo romano abbia avuto un’origine pastorale? Chi è che non sa che il pastore Faustolo fu la balia che allevò Romolo e Remo? Il fatto stesso che essi scelsero proprio i Parilia come data per fondare la città non dimostra che erano pastori essi stessi?”
Sempre seguendo il calendario romano di età pre-cristiana, il 19 Aprile avremmo festeggiato i Cerealia e il 23 i Vinalia Rustica, le cerimonie di apertura della vendemmia e in generale tra i 200 giorni festivi previsti da Romolo, più della metà erano legati ai prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento.
Con la sostituzione delle festività pagane con quelle cristiane quest’usanza si perde ma rimane sedimentata come un fossile nella nostra attuale abitudine a riunirci per festeggiare sempre attorno ad una tavola imbandita.
Dunque prima ancora di essere un popolo di Cristiani siamo stati pastori e abili agricoltori orgogliosi della fertilità delle nostre terre, quindi perché non scegliere questo momento dell’anno per ricordare da dove provengono i prodotti che anche quest’anno sono arrivati sulla nostra tavola pasquale?
Cominciamo con un piccolo excursus sulla storia della dieta romana per poi passare alla pratica con una ricetta ispirata alle indicazioni di Catone, uomo politico ma anche eccellente agricoltore che ci ha lasciato un trattato agronomico intitolato De Agricoltura.
I primi prodotti dell’agro laziale
I Romani seguivano una dieta principalmente a base di cereali, ortaggi e legumi.
Limitavano molto il consumo della carne e quella poca che consumavano era quasi esclusivamente di maiale per due principali motivi: l’allevamento del maiale richiedeva poche cure, infatti il Lazio era ricco di querce che, producendo ghiande, contribuivano spontaneamente al nutrimento degli animali. Inoltre era proibito mangiare il bue, che era considerato un animale sacro per l’aiuto che poteva dare nel lavoro dei campi tanto che sacrificarlo agli dei era comparato a commettere omicidio. La carne poteva arrivare a due tipi di mercato: il Forum Suarium per la carne suina, il Forum Boarium per quella bovina, che tuttavia era solo quella degli animali vecchi, non più idonei al lavoro, che quindi doveva essere piuttosto dura.
Lo sfruttamento dei rilievi appenninici per l’allevamento comincia solo dopo le prime conquiste a scapito dei possedimenti etruschi a partire dal V sec. a.C.
Fino a quel momento la grande ricchezza dell’ agro laziale è costituita dai cereali, che si distinguevano tra quelli superiori, o “grani nudi”, così chiamati perché si decorticavano automaticamente con la mietitura e la battitura, ed erano il grano, la segale, il miglio e il panico. C’erano poi quelli inferiori o “rivestiti”, per i quali era indispensabile la brillatura, ovvero il farro e l’orzo.
Questi avevano una resa molto minore rispetto a quella del grano in quanto gran parte del chicco si perdeva con lo scarto della crusca e rimasero gli unici ad essere coltivati nei terreni umidi del Lazio per almeno tre secoli, prima che il dominio dei Romani si estendesse anche verso i terreni più asciutti della Gallia, da cui fecero arrivare le prime scorte di grano.
L’importanza della coltivazione del farro è comprovata dal fatto che il rito del matrimonio era chiamato Confarreatio e prevedeva che la donna portasse al futuro marito un pane di farro. Anche la parola “Farina”, che noi oggi utilizziamo per indicare il prodotto della macinazione di qualsiasi cereale, per i Romani non era che farro macinato, abbrustolito e battuto, così come la Siligine era lo sfarinato del grano tenero, chiamato Siligo, e la Similago quello del Triticum, cioè il grano duro. Quello che noi oggi chiamiamo con il nome generico di “Farina”, per i Romani era semplicemente “Pollen”. Su questi prodotti agricoli cominciarono a costruirsi i primi segni di un’identità nazionale: la farina di farro era alla base di numerosi piatti, tra cui la Puls, da considerarsi a metà tra una farinata e una pappa, potremmo dire l’antenato della nostra polenta. I Greci, da sempre in competizione con i Romani per il prestigio sul mediterraneo, chiamavano i Romani “mangiatori di Puls”.
I Romani, dal canto loro, chiamavano invece i Greci “mangiatori di orzo” in senso dispregiativo. L’Orzo infatti si prestava ad essere coltivato in qualsiasi terreno, anche in quelli più aridi e asciutti, quali erano quelli in Grecia, e a Roma si comincia a utilizzarlo come foraggio per gli animali non appena scoprono il grano. Plinio il Vecchio, autore della Historia Naturalis, scriveva infatti:
“Il migliorato tenore di vita ha condannato il pane d’orzo, in uso presso gli antichi, ed esso è ormai quasi solo cibo per le bestie”.
Il nostro primo piatto nazionale è a base di farro: la Puls
Catone, nel suo trattato, ci ha lasciato invece la ricetta della puls:
“Metti in acqua una libbra di farina e tienila fino a che non sia inzuppata. Quindi mettila in una bacinella ben pulita e aggiungi tre libbre di Cacio fresco e rimescola bene. Fa’ cuocere in una pentola nuova”.
Apicio, famoso gastronomo del I secolo a.C., aggiungeva anche cervella scottate, polpa di carne sminuzzata, olio, vino e semi di finocchio, ma quella era la versione per i palati più raffinati.
Il garum
Altro grande classico della cucina romana era il garum, una sorta di salsa di origine greca usata come condimento soprattutto in età imperiale. Tuttavia l’impressione che se ne ricava dalla descrizione di Plinio è quella di qualcosa di piuttosto ripugnante, sebbene egli non mancasse di mascherare i suoi gusti con un pizzico di ironia. Egli scriveva infatti:
“Vi è un tipo di liquido squisito, chiamato garum, ottenuto facendo macerare nel sale gli intestini di pesci e le altre parti che sarebbero da buttare via; il garum è perciò il marcio di materie in putrefazione”.
La tavola come specchio della vastità dell’impero romano
Dunque queste erano le specialità dei nostri antenati, ma non erano certo le pietanze che si potevano trovare quotidianamente sulla tavola del cittadino medio, che erano pane, vino, legumi, il pulmentarium, che equivale al nostro companatico, che per i Romani erano olive in salamoia, generalmente quelle che contenevano meno olio e non potevano essere usate per la spremitura. C’erano poi una certa quantità di allec, ovvero sarde in salamoia, fichi e datteri.
La tavola romana si può considerare come una sorta di mappatura dell’immenso numero di territori e popoli che erano caduti sotto il dominio dell’impero romano e della fitta rete di scambi che con essi Roma intratteneva:
Fichi e datteri arrivavano dalla Palestina, l’olio, per quanto se ne producesse anche in Italia, arrivava per lo più dall’Africa Settentrionale e dalla Spagna. L’Africa ne era particolarmente ricca, come ce ne lascia testimonianza un sermone di Sant’Agostino risalente al periodo in cui fu governatore della città di Ippona. Lì scriveva: “Prendi il mio oro e dammi olio africano”. Sempre Sant’Agostino in un passo del De Ordine racconta di come, trovandosi dopo la conversione con i suoi discepoli nei pressi di Milano, le stanze non fossero illuminate perché in Italia l’utilizzazione continua delle lampade ad olio era un lusso che neppure i ricchi potevano permettersi.
In realtà il consumo dell’olio non aveva il valore che ha per noi oggi nel mondo antico, visto gli elevati costi di produzione e importazione che aveva: alcune stime ritengono che con un’ora di lavoro per la sua produzione si producessero a malapena 2,3 kg di olio. Come da noi invece il prezzo variava a seconda della spremitura e andava dai 40 denari il sestario per quello di prima spremitura, chiamato olei flos , ai 12 denari il sestario per quello comune.
Ora, considerando che un sestario corrispondeva a poco più di mezzo litro e un centurione veterano, ossia un soldato giunto a buon punto della sua carriera militare, percepiva circa 1 denario al giorno, ci volevano 40 giorni di servizio per comprare una bottiglia da mezzo litro d’olio vergine.
Dunque non dobbiamo stupirci se i romani si limitavano per lo più al consumo del frutto fresco dell’ulivo. Una specialità siciliana a base di olive era la Sampsa, o anche chiamata Epityrum, una sorta di salsa molto saporita. La ricetta anche stavolta ce la lascia Catone, che nel De Agricoltura scrive:
“ Fa’ così l’epityrum di olive bianche e nere. Leva i noccioli sia dalle olive bianche che da quelle nere e sistemali così: tagliale tutte a pezzetti e aggiungici olio, aceto, coriandolo, cumino, finocchio, ruta e menta. Riponile in un orciolo e coprile bene con olio.”
Indispensabile per accompagnare la sampsa era poi il pane.
Il pane entra nella dieta dei Romani relativamente tardi: i grani nudi compaiono infatti solo a partire da IV secolo a.C., dopo i primi contatti con la Gallia, così come il lievito, che cominciarono a produrre facendo fermentare farina di miglio o grano con il mosto. Pare che questo tipo di lievito conferisse al pane un sapore particolarmente acre, per cui tendevano ad utilizzarne il minimo. Ne risultava un pane molto più duro e amaro rispetto a quello della Gallia o della Spagna, in cui, come ci attesta Plinio,
“Il pane era molto più leggero perché utilizzavano come lievito la schiuma che si formava sulla superficie della birra”.
Probabilmente prima che si cominciasse a produrre lievito si consumava una sorta di pane azzimo in forma di galletta non lievitata, da come si può ipotizzare facendo riferimento alla ricetta del pane depisticius (“impastato”) che ci da Catone:
“ Fa’ in questo modo il pane depisticius: lava prima bene le tue mani e il mortaio. Versa in questo della farina, aggiungi poco per volta dell’acqua e impasta bene. Quando avrai impastato bene, tira fuori, riduci a forma di pane e metti a cuocere sotto il mattone.”
Tuttavia già a partire dal II secolo a.C. circolava una gran varietà di tipi di pane lievitato, differenziati a seconda del tipo di farina con cui erano prodotti. A differenza di ciò che avviene oggi, in cui sono state riscoperte le proprietà benefiche della crusca di frumento, facendo salire alle stelle il prezzo dell’integrale, per i romani il pane migliore era quello bianco, fatto con la siligine, la farina di grano tenero, come scrive Plinio. Il pane nero, chiamato panis cibarius o plebeius, era mangiato dai poveri o dagli schiavi. È interessante notare come dal momento in cui il grano entra stabilmente nella dieta, orzo e farro cominciano progressivamente ad essere riservati alla nutrizione solo in casi di necessità come nei periodi di carestia. Addirittura un modo per punire i soldati in caso di cattiva condotta era dar loro orzo in luogo di frumento. Secondo lo storico greco Polibio, da sempre appassionato alla scena di vita romana, la razione giornaliera di frumento di un soldato era di un valore corrispondente a circa 850g al giorno, che sarebbe salita a circa 1kg in età cesariana.
Qua occorre sottolineare, come ha giustamente fatto lo storico contemporaneo De Martino, che mangiare un chilogrammo di carboidrati al giorno è impensabile per noi oggi, ma non lo era nell’antica Roma, in cui la dieta era quasi unicamente a base di cereali e soprattutto non lo era per un soldato, che sicuramente non conduceva uno stile di vita sedentario!
Ma andiamo ora all’altro grande protagonista della tavola romana: il vino.
Le viti italiane erano molto produttive ma per coprire un fabbisogno annuo, che secondo alcune stime in età imperiale arrivava a circa un milione e mezzo di ettolitri l’anno, lo facevano arrivare per lo più dalla Gallia e dalla Spagna. Anche con l’uva i Romani erano dei grandi economisti e badavano che nulla andasse sprecato, per cui il vino era alla base di una gran varietà di bevande prodotte nei vari mesi successivi alla vendemmia. Dal terzo mese si produceva la Lora, quello che Plinio ricordava come il “vino dei lavoratori” e di cui anche qua Catone ci passa la ricetta:
“ Mettere in un tino 10 quadrantali (260 litri) di mosto, 2 quadrantali di aceto forte (52 litri) , altri 2 di vino cotto e 50 di acqua dolce. Rimescolate con forza questa miscela tre volte al giorno per 5 di seguito. Aggiungere 64 sestari( poco più di 32 litri) di acqua di mare non attinta di fresco e coprire il tino, tenendovi ben chiuso il coperchio per 10 giorni.” Catone suggerisce anche come riutilizzare eventuali avanzi: “Questo vino si consumerà fino al solstizio d’estate. Se ne avanza dopo il solstizio, ricaverai un aceto forte, molto bello”.
Per i banchetti dei più ricchi erano riservati invece i vini liquorosi, più dolci e con una maggiore percentuale di alcol: il Defrutum era il vino che si otteneva facendo bollire il mosto fino a ridurlo alla metà, la Sapa era il mosto ridotto di un terzo. C’era infine il Mulsum, il vino con miele: si preparava mescolando 3kg di miele a 13 litri di vino di pregio e si consumava soprattutto come vino da antipasto.
Dalla teoria alla pratica: la ricetta ideale per l’aperitivo in stile romano
La fantasia in cucina resta l’ingrediente segreto migliore, ma quando incontra la tradizione antica può far diventare un semplice aperitivo in un interessante scambio di idee con i vostri commensali. Grazie alle indicazioni di Catone abbiamo provato ad adattare i pochi e semplici prodotti che si potevano trovare sulla tavola di un normale triclinium romano, così si chiamava la sala da pranzo, al gusto di oggi per i piatti semplici ma sfiziosi. Qui vi proponiamo delle tartine di pane depisticius integrale di farro accompagnate dalla tipica salsa di olive romana, la Sampsa o Epityrum. Pronti a stupire i vostri amici?
Tartine depisticiai di farro con Sampsa di olive e allec
Ingredienti: per il pane depisticius: 240g di farina integrale di farro 130 ml di acqua tiepida 1 cucchiaino (5g circa) di sale 1 cucchiaio ( 10g circa) di olio extra vergine di oliva Per la Sampsa di olive: 100g di olive denocciolate Una manciata di capperi sotto sale Qualche goccia di succo di limone 1 cucchiaio abbondante di olio Origano Timo Semi di finocchio Menta Qualche filetto di sardina
Procedimento:
Come prima cosa occupatevi del pane. Disponete la farina, il sale e l’olio in una ciotola e aggiungete a filo l’acqua, che dovrà essere ben tiepida. Cominciate a impastare finché non ottenete un panetto compatto. Avvolgete con la pellicola e mettete a riposare in frigo per almeno 15 minuti.
Nel frattempo dedicatevi alla Sampsa: disponete gli ingredienti in un contenitore dai bordi alti e, non ce ne voglia Catone ma il minipimer elettrico è molto più veloce del pestello, frullare finché non si raggiunge una consistenza cremosa ma non liquida, perché altrimenti il condimento andrebbe a cadere dalle nostre tartine. Disponete quindi in una piccola ciotola e decorate con foglie di menta fresca e qualche seme di finocchio. Potete ripetere l’operazione con altre varietà di olive: nella ricetta di Catone si mischiavano olive bianche e nere, nella nostra abbiamo preferito creare una porzione di Epytirum di olive nere e una di olive bianche per lasciar sentire la differenza tra le due varietà.
Riprendete ora l’impasto del pane dal frigo, stendetelo su una spianatoia infarinata con il mattarello fino ad ottenere una sfoglia dall’altezza di circa mezzo centimetro, o anche meno se preferite una consistenza più croccante a fine cottura. Tagliate con una rotella tanti quadratini e formatevi dei fori sulla superficie con una forchetta. A questo punto ponete, come vuole la ricetta di Catone, su una piastra ben calda. Fate cuocere 1-2 minuti al massimo per lato e disponete su un piatto. A questo punto potete unire una parte del pane con l’Epytirum e decorare con qualche filetto di sardina e foglioline di menta e lasciare il resto nel piatto per lasciare che ognuno dei vostri commensali si serva da solo.